Perchè ricordare il 25 Aprile

Ripropongo il video creato alcuni anni fa, in collaborazione con alunni e docenti della classe 3A della Scuola Secondaria Roberto Clara di Pancalieri. Le interviste ad anziani e a pancalieresi che erano bambini durante la guerra e la lotta di Liberazione. Questo per capire perchè bisogna ricordare il 25 Aprile, aldilà di ogni appartenenza politica.

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Pian del Lot, i terroristi e la cricca del Moro

La Stampa

“Vasta organizzazione terroristica, scoperta dalla Polizia, ventisette componenti la banda, fucilati all’alba di ieri…..le indagini della polizia, hanno avuto in questi giorni un primo successo …..è risultato che le delittuose gesta compiute in queste ultime settimane, sono da attribuirsi a detta organizzazione terroristica……(LA STAMPA 3 aprile 1944)

A Pian del Lot, nei pressi del colle della Maddalena, sulla collina di Torino, si consuma così la più sanguinosa delle rappresaglie tedesche sul territorio della città.

Nei fatti però, quella organizzazione terroristica, non esisteva, addirittura tra i ventisette massacrati, molti non si conoscevano. Basta tornare indietro di qualche giorno per capirlo. Dopo i rastrellamenti tedeschi dei primi giorni della primavera 1944, in val di Lanzo, come in val Pellice o val Luserna (battaglia di Pontevecchio) molti Partigiani vennero catturati e portati alle carceri Nuove di Torino. I tedeschi, continuano in quel periodo ad operare numerosi arresti di civili, del tutto estranei al movimento Partigiano, è il caso ad Orbassano, dei fratelli Cumiano, una famiglia di ferraioli che raccoglieva in giro ferro per venderlo alle fonderie. Venuti in possesso di vecchio materiale militare del Regio Esercito, vennero arrestati una mattina e portati alle “Nuove”. Oppure Luigi Parussa, 18 anni, Partigiano delle SAP ( Squadre di Azione Patriottica) sorpreso in piazza Carignano in compagnia della fidanzata e portato all’Albergo Nazionale, luogo entrato nella storia di Torino per essere stato, durante l’occupazione tedesca dell’Italia, la sede del Comando della Gestapo, l’ultimo piano era tristemente noto per essere adibito a luogo di interrogatori e torture di Partigiani e Antifascisti.

L’eccidio di Pian del Lot, viene scatenato n seguito all’uccisione di un caporale tedesco, Walter Wohlfahrt , la sera del 30 marzo 1944, viene ucciso mentre attraversa il ponte Umberto I° a Torino. Il caporale è uno dei militari assegnati alla contraerea tedesca situata sulla collina torinese. Scatta immediatamente la rappresaglia, mentre i giornali parlano di: “…assassinio metodicamente organizzato da gruppi terroristici”. Si racconta di fantomatiche indagini, addirittura, le autorità tedesche offrono un premio di 100 mila lire per la cattura dell’assassino e dei suoi complici. Tutto questo per preparare e disinformare la popolazione, sull’ennesima rappresaglia.  Da Milano infatti, giunge il Colonnello delle SS Walter Rauff   comandante interregionale di Piemonte, Lombardia e Liguria, vuole essere lui personalmente a sostituire il Tenente Schimd, (in partenza per una licenza) responsabile del SD, il servizio di sicurezza delle SS. Tutti gli Ufficiali si riuniscono presso l’Albergo Nazionale e con la collaborazione dei responsabili del carcere preparano la tragica lista, inizialmente su ordine del Generale Wolff, comandante della polizia tedesca in Italia, 50 dovevano essere i prigionieri da uccidere, questo per dare un chiaro segno della potenza nazista, il numero scese fortunatamente a 27.

Nel momento in cui sui giornali appare l’annuncio della ricompensa, per chi fornirà notizie sull’attentato, già si fanno i preparativi, gli operai dell’ OrganizzazioneTodt, la grande impresa di costruzione che operava per la Germania nazista, stanno già scavando la grande fossa comune che accoglierà i corpi delle vittime. All’alba del 2 aprile 1944 i ventisette prigionieri vengono fatti salire sui camion e portati verso la collina, tra essi, quindici partigiani delle brigate Garibaldi, catturati in val di Lanzo e val Luserna, due Partigiani GL, i fratelli Antonio, Giuseppe e Michele Cumiano, Alfredo Natale Bruno, arrestato a Torino in seguito ad uno sciopero, Luigi Parussa e cinque Partigiani della zona di Borgo Vittoria, frequentatori della cricca del Moro, un Osteria situata tra le attuali via Gramegna e via Giachino. Racconta del suo diario il Partigiano Oscar, prigioniero anche lui alle Nuove e a cui toccò insieme ad altri il compito di ricoprire la fossa di Pian del Lot: “ …son da poco partiti i prigionieri, entra un tedesco e prende dieci di noi, ci fanno salire su un camion, veniamo portati in collina, vicino alle batterie contraeree tedesche. Qui si trovano, fascisti tedeschi e numerose persone legate con le mani, sono i nostri compagni. A colpi di mitraglia e di pistola il massacro è già in atto”. Alla fine Oscar e altri prigionieri avranno il triste compito di ricoprire la fossa, nonostante alcune delle vittime fossero ancora in vita. Sarà proprio lui, Giovanni Borca, il Partigiano Oscar, finita la guerra, ad indicare il luogo dell’eccidio, e a permettere così ai parenti delle vittime di poter rendere degna sepoltura ai loro cari.   Una domenica mattina dell’autunno 1945, sfidando autorizzazioni e ristrettezze economiche, viene inaugurata una delle prime lapidi commemorative spontanee. In via Giachino angolo via Gramegna, davanti all’Osteria, gli abitanti del borgo hanno voluto ricordare gli amici della cricca del Moro, i soldi li hanno ottenuti grazia ad una sottoscrizione e ai proventi di una serata danzante alla sala da ballo Lutrario.

Il ritrovamento dei cadaveri a Pian del Lot

Il ritrovamento dei cadaveri a Pian del Lot

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L’unico uomo di casa Savoia

Così veniva definita negli ambienti monarchici Maria Jose del Belgio, moglie di Umberto II (Re di Maggio) e madre di Vittorio Emanuele IV di cui si celebrano in questi giorni le esequie.

Figlia di Alberto di Sassonia, crebbe in un ambiente pieno di interessi e di cultura, grazie anche alle doti dei genitori, il padre tra l’altro era incline alle idee socialiste dell’epoca. Sposò Umberto II l’otto gennaio del 1930, fin da subito non ebbe buoni rapporti con la parentela del marito, la sua provenienza dal più aperto ambiente reale belga e l’educazione di stampo moderno che aveva ricevuto si scontravano con il rigore della monarchia italiana, infatti negli anni, all’ambiente nobile preferiva quello degli intellettuali, dei filosofi, degli scrittori.

Inizialmente tenne un comportamento neutrale nei confronti di Mussolini e del regime fascista (come del resto la maggioranza degli Italiani) , i suoi rapporti peggiorarono con l’alleanza Germanica, con la Guerra d’Etiopia che valse all’Italia le sanzioni Internazionali, con la promulgazione delle leggi razziali. Mussolini dal canto suo trattò sempre Maria Josè con una certa freddezza e sospetto tanto da metterle alle costole il capo della polizia Arturo Bocchini. Nel 1939 con lo stravolgimento dello Statuto Albertino Mussolini proibì ai giornali di nominare Umberto II e Maria Josè come Principi Ereditari e li obbligò a chiamarli Principi di Piemonte.

Di fatto L’attività «cospiratoria» di Maria José durante la guerra fu particolarmente vivace, incontrò a Roma diversi filosofi e scrittori tra cui il comunista Elio Vittorini e Guido Gonella, giornalista cattolico che la mise in contatto con Giovanni Battista Montini, allora sostituto alla Segreteria di Stato. Maria José era convinta che la strada del Vaticano fosse la migliore percorribile per stabilire contatti con Londra e Washington e uscire con onore e senza troppi danni dalla guerra. Ma il «canale Vaticano» venne chiuso per l’insofferenza del Re nei confronti dell’attivismo della nuora.

La Principessa fu al centro di un vero e proprio tentativo di colpo di stato quando Mussolini aveva lasciato intendere che la guerra mondiale fosse ormai dietro l’angolo, e che l’Italia sarebbe stata alleata della Germania. Era il periodo della visita di Hitler a Roma con il Papa ritiratosi a Castel Gandolfo per protesta e degli annunci di Hitler di voler incorporare i territori cecoslovacchi abitati da tedeschi (guerra dei Sudeti).

Il documento che attesta il tentato golpe è stato rinvenuto da D. Bolech Cecchi al Public Record office di Londra, nella cartella 397 (Private Office Papers): in questo fascicolo si trova, fra gli altri, un rapporto dattiloscritto, classificato come most secret, datato 27 novembre 1939. Maria Josè decise di convocare presso il castello di Racconigi in una riunione segreta i principali dissidenti di questa alleanza, presenti il Maresciallo Badoglio, alcuni gerarchi fascisti fedeli alla monarchia, tra cui Rodolfo Graziani e Dino Grandi (passato alla storia per l’ordine del giorno al Gran Consiglio, che portò alla destituzione di Mussolini il 25 luglio 1943)

Il piano, prevedeva l’arresto del Duce, lo scioglimento del Partito Fascista, l’abdicazione di Vittorio Emanuele III e la rinuncia di Umberto. Al trono sarebbe salito il piccolo Vittorio Emanuele figlio dello stesso principe ereditario e di Maria José che sarebbe diventata Reggente. Ma il colpo di stato sarebbe sfumato a causa dell’improvviso annuncio dell’incontro a Monaco fra Hitler, Chamberlain, Mussolini e Daladier, che mutò le premesse relative agli equilibri europei necessari per il golpe.

Non era amata dal suocero Vittorio Emanuele III , il quale nell’agosto del 1943 le ordinò di troncare immediatamente ogni rapporto con l’opposizione antifascista e la costrinse a ritirarsi con i quattro figli nella residenza estiva dei Savoia a Sant’Anna di Valdieri sotto la sorveglianza della cognata fino a quando lui stesso non l’avrebbe richiamata a Roma. Dopo l’8 settembre, data dell’armistizio di Cassibile, Maria José riparò in Svizzera con i figli per timore di rappresaglie dei tedeschi e da qui aiutò la resistenza in Italia, divenendo un punto di riferimento per gli antifascisti. Luigi Einaudi uscì da un campo di concentramento grazie anche a un suo interessamento.

Finita la guerra, il 9 maggio 1946 sedette sul trono col marito Umberto II per venticinque giorni, fino al 5 giugno quando dopo i risultati del Referendum e la vittoria della Repubblica seguì l’esilio per la casa reale di Savoia.

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Italia 61

Le fotografie raccontano una storia, tra maggio e ottobre del 1961 Torino ospita le celebrazioni del primo centenario dell’Unità d’Italia. In edifici appositamente costruiti si svolgono gli eventi principali, curati dal comitato nazionale «Italia ’61», presieduto da Giuseppe Pella: la Mostra delle Regioni (curata da Mario Soldati), e l’Esposizione internazionale del lavoro (patrocinata dal parigino Bureau International des Expositions) si svolgono presso il nuovo Palazzo dell’Esposizione Internazionale del Lavoro di Torino, progettato dall’ing. Pier Luigi Nervi, aperto al pubblico all’inaugurazione di Italia ’61 fu visitato da 6 milioni di visitatori provenienti da 21 Paesi. Ha una superficie di 25.000 metri quadrati e 16 pilastri alti 25 metri che sorreggono raggiere di travi in acciaio di 38 metri: è riconosciuto in tutto il mondo come uno dei monumenti più innovativi (foto archivio Bottega del ciabattino).

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Il Comandante Balestrieri

Ricorre il 2 Dicembre l’ottantesimo anniversario dell’attacco partigiano al campo di aviazione di Murello, un blitz che da storici come Gianni Oliva viene considerato come uno degli episodi più rilevanti e spettacolari della Resistenza Piemontese, sia per il risultato raggiunto (32 aerei nemici distrutti e nessun ferito) sia per la precisione tattica. Alla testa di questa azione c’era Felice Luigi Burdino (nome da Partigiano Franco Balestrieri) comandante di distaccamento della IV Brigata Garibaldi.

Felice Luigi Burdino nato a Cumiana il 22 settembre del 1917 dopo aver frequentato il liceo classico si laurea in Lettere all’Università di Torino, giusto in tempo per partire per la guerra, dapprima nell’aviazione, presta poi servizio militare negli Alpini a Trento, dove dopo l’otto settembre come molti altri soldati dopo aver buttato la divisa (per non farsi riconoscere dai soldati tedeschi) torna verso casa.

Di carattere schietto, deciso, a volte burbero, non esitò, prima di entrare a far parte della IV Brigata Garibaldi, a dire al Comandante Barbato “Guardate io non sono comunista! Io sono un GL e mio fratello è più un liberale che un GL, quindi o accettate questo o me ne vado”. Naturalmente entrò nelle file Garibaldine e lì ebbe inizio la sua storia da partigiano

Politicamente vicino alle idee Gobettiane e quindi iscritto a Giustizia e Libertà conobbe Pompeo Colajanni, il comandante Barbato ed entrò a fare parte della IV Brigata Garibaldi. La sua passione per l’alpinismo che lo portava a conoscere a memoria tutte le nostre montagne, unita ad un grande spirito di intarprendenza gli permisero di creare una squadra di una dozzina di uomini per organizzare i primi posti di blocco, da li a passare in azione per Balestrieri fu un attimo.

Di fatto Franco Balestrieri a fine novembre del 1943 dopo aver fatto un sopraluogo per reclutare nuovi partigiani in pianura e cercare taniche di benzina per i loro mezzi , scopre il campo di aviazione di Murello dove sono fermi oltre una trentina di aerei dell’esercito Italiano requisiti dai tedeschi e marchiati con una vistosa croce nera uncinata e decide di organizzare l’attacco. Divenne in seguito Comandante di Distaccamento, al comando di una sessantina di uomini si distinse per altre velocissime azioni, come quella volta che una squadra di Brigate Nere arrivata a Cavour, bloccò il paese arrestando una decina di giovani renitenti alla leva, subito Balestrieri partì da Barge con una sua squadra e intervenne liberando i giovani e uccidendo alcuni fascisti e un Maggiore tedesco.

Finita la lotta Partigiana, dopo la Liberazione Franco Balestrieri, laureato in lettere all’Università di Torino si diede all’insegnamento, portandosi dietro sempre i suoi ricordi da Partigiano e soprattutto la sua grande umanità, come quella volta che ai suoi allievi del Liceo Classico di Pinerolo, mentre spiegava un passo dell’Eneide che parlava di soldati morti, ebbe a dire: “…perche un nemico, quando gli spari è un nemico, ma quando lo hai ucciso è un uomo, un uomo morto”.

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Boves, una strage da non dimenticare

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Quell’eroico Giro d’Italia del 1914

Le recenti polemiche al Giro d’Italia, relative al taglio della tappa: Borgofranco d’Ivrea- Crans Montana, taglio che ha ridotto la corsa da 199 km a 74, partendo direttamente dal territorio Svizzero, malgrado le condizioni del tempo non fossero così proibitive, mi hanno portato a tornare indietro nel tempo, andando a cercare curiosità nel mio solito scatolone dei giornali e documenti. E così ho trovato questo vecchio articolo di Armando Cougnet, oltre che giornalista, ideatore e primo patron del Giro d’Italia, colui che ebbe l’idea di vestire il primo in classifica con una maglia di un colore diverso dagli altri.

Quel Giro d’Italia di 99 anni fa, ancora adesso è considerato il più duro dell’epoca eroica del ciclismo, 3162 Km da coprire in otto tappe, una media di 395 Km a tappa, 1° Tappa Milano-Cuneo 420 km; 2° Tappa Cuneo-Lucca 340,5 km; 3° Tappa Lucca-Roma 430 km; 4° Tappa Roma-Avellino 365,4 km; 5°Tappa Avellino-Bari 328,7; 6° Tappa Bari-L’Aquila 428 km; 7° Tappa l’Aquila-Lugo 429 km; 8° Tappa Lugo-Milano 420,3 km. Il Giro del 1914 venne ricordato come il primo in cui la classifica veniva calcolata sui tempi e non sui punti accumulati, ma soprattutto perche fu quello che ebbe il minor numero di corridori all’arrivo finale, soltanto otto, su 81 partenti.

.Si parte da Milano, pochi minuti dopo la mezzanotte, passando per Biella, Ivrea, Torino, Susa, Sestriere, Pinerolo e Cuneo. Scrivono i giornali dell’epoca: “il presagio di partenza non è favorevole, il cielo denso di nubi si rischiara a tratti per il balenio dei lampi, proprio verso le Alpi dove eravamo diretti”. A Torino piove, molti corridori sostano in osterie e più non escono, a Susa, la maggior parte non sa decidersi se affrontare il Sestrieres, davanti a tutti Luigi Ganna, poi Girardengo, ma emerge il torinese Angelo Gremo, supera gli avversari, attraversa il valico a piedi con la bici che affonda nella neve… “i suoi occhi sembrano chiedere: quando finirà questo tormento”, scende verso Pinerolo, poi Saluzzo e via lentamente verso Cuneo, tanto gli inseguitori, più stanchi di lui, non tentano di raggiungerlo.

All’arrivo, degli ottantuno partenti, solo la metà firmerà il foglio d’arrivo, mentre il Direttore di gara Longoni continua a ripetere: “.. che importa per l’arrivo a Milano basta un solo corridore”.

Si attraversa l’Italia, tra ritiri e contestazioni, come quando durante la tappa Bari – L’Aquila (tempo di percorrenza 19h20’47”) tre corridori esausti, Durando, Calzolari e Canepari vengono sorpresi mentre in salita si fanno trainare da una autovettura. Ma il fatto che più preoccupa gli organizzatori all’arrivo all’Aquila è che tutti i corridori sono arrivati al traguardo meno uno, Azzini, il corridore in testa alla classifica. Lo si cerca per tutta la notte nelle campagne, il giorno dopo riprese le ricerche e viene trovato in un fienile addormentato ed esausto vicino alla sua bicicletta.

Vicenda tipicamente italiana, la comunicazione della squalifica per i tre corridori che si erano fatti trainare, arrivò con un telegramma a Lugo, dopo che i corridori erano già partiti per Milano e solo un anno dopo, tra mille ricorsi la vittoria finale andò ad Alfonso Calzolari.

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Torino, porca città Francese

“Torino, porca città francese” così Benito Mussolini apostrofò la capitale sabauda dopo la sua visita alla Fiat Mirafiori nel maggio 1939 la frase venne raccolta da un giovanissimo Furio Colombo presente alla dichiarazione del Duce dopo la freddissima accoglienza degli operai: Non ho mai incontrato Furio Colombo, ho avuto però la fortuna e l’onore di conoscere Gianni Alasia, operaio, antifascista e Deputato che quel giorno era presente e che mi rilasciò questa affettuosa e simpatica intervista.

E del resto l’Antifascismo dei Torinesi era ben noto a Mussolini e lui aveva ben ragione di temerlo, Torino non accettò mai l’entrata in guerra a fianco di Hitler, e fu la prima città a manifestarlo, Già negli ultimi mesi del `42 dalle fabbriche torinesi giungono sul tavolo dei gerarchi romani rapporti allarmanti che parlano di prime fermate spontanee, di rischi di saboraggio, di «diffusa disaffezione al lavoro» e al regime. I giovani che arrivano in fabbrica, incontrano vecchi lavoratori (i turniur) con la memoria del biennio rosso. Portano con sé una spontanea curiosità per tutto ciò che è diverso dal grigiore del fascismo e dal cupo clima di guerra, una predisposizione alla ribellione che si affianca fisicamente all’esperienza professionale e politica della generazione precedente,

Tra il 5 e il 17 marzo 1943 le fabbriche torinesi sono bloccate da una protesta che coinvolge 100.000 operai. Dietro alle rivendicazioni economiche, le agitazioni hanno un chiaro intento politico e cioè la fine della guerra e il crollo del fascismo. Le agitazioni operaie si diffusero da Torino, vero epicentro della protesta operaia, alle altre città del Piemonte (Asti, Cuneo, Alessandria, Vercelli) e alla fine di marzo le agitazioni coinvolsero anche Milano e Genova, gli operai dimostrarono che era possibile opporsi al fascismo e alla guerra. scesero in sciopero e diedero avvio alla contestazione aperta contro il Regime chiedendo “pane e pace”, quindi, dissociandosi dalla guerra fascista, considerata sbagliata e ingiusta.

Durissima la repressione, azioni punitive davanti ai cancelli, oltre 1000 arresti, ma fù chiaro il segno che iniziava la sconfitta di Mussolini sul fronte interno attraverso la perdita definitiva del consenso già prima della sua destituzione, un vero e proprio preludio al crollo del 25 luglio.

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Mexico 70 e i miei ricordi

Ricordo i mondiali di calcio del 1970 non tanto o non solo per la mitica partita Italia-Germania 4-3 , li ricordo soprattutto come data di riferimento dell’inizio della mia età lavorativa.

Ebbene si, per quanto nel 1970 io avessi solo undici anni, ricordo benissimo che saltai la finale Italia-Brasile perché dovevo stare alla cassa del Cinema Ideal, il cinema comunale gestito al tempo da mio padre.

Si mangiava cena presto la domenica, verso le 18, spesso era una merenda sinoira consumata da Maria al porto di Faule, tutto questo perché la domenica, oltre alla programmazione dello spettacolo delle ore 15 erano previsti altri due spettacoli, alle 19 e alle 21. Ora siccome l’orario per la finale venne stranamente scelto alle ore 12 a Città del Messico con caldo e umidità pazzesca, inevitabilmente in Italia, con fuso orario avanti di sette ore, la partita venne trasmessa alle ore 19.

Con mia grande rabbia quindi mi misi alla cassa del cinema a gestire quei pochi spettatori presenti, senza nemmeno una radiolina da poter sentire la radiocronaca, ricordo che al primo goal dei brasiliani, fu la signora che gestiva il dopolavoro dei combattenti (situato dove adesso c’è la biblioteca comunale) a comunicarmi il risultato: “ha segnato Pella” , storpiando così il nome di Pelè per assegnare il goal ad un senatore democristiano dell’epoca.

Non ricordo altro, so che Neta d’Mungan, questo era il nome della titolare del dopolavoro, forse intenerita dalla mia faccia imbronciata continuava a fare la spola tra il dopolavoro e la cassa del Cinema, ma io di quei momenti ho resettato quasi tutto, tanto ero furioso.

Di quei mondiali ricordo piuttosto una novità rivoluzionaria che ancora oggi spadroneggia sui campi di calcio di tutte le categorie, forse non tutti lo sanno ma da quel mondiale nacquero i famosi cartellini giallo e rosso, segni inequivocabili di ammonizione o espulsione. Raccontano gli storici del calcio che l’idea venne ad un arbitro inglese, dopo che ai mondiali del 1966 durante la partita Inghilterra- Argentina un giocatore sudamericano venne espulso dall’arbitro che lo fece in modo verbale, forse i due non si capirono o forse l’argentino fece il furbetto, sta di fatto che giocò ancora parecchi minuti, giustificando l’incomprensione con le difficolta di lingua, al tempo infatti erano ancora ben poche le partite di livello internazionale e la conoscenza linguistica di arbitri e giocatori molto spesso era limitata al proprio paese.

Tutto questo e pare complice uno stop ad un semaforo londinese fece balenare all’arbitro Ken Aston, allora fra i rappresentanti della commissione arbitrale della Fifa, una delle idee piu semplici e chiare del mondo e che sarebbe stata interpretata allo stesso modo su tutti i campi di calcio del nostro globo: Arancione (o meglio giallo) rallenta, Rosso ti devi fermare.

L’idea piacque e nei mondiali del 1970 fece il suo esordio, per la cronaca il primo giocatore ad essere ammonito fu il russo Asatiani proprio nella partita di esordio di Mexico 70 contro i padroni di casa, mentre per il primo cartellino rosso si dovettero aspettare altri quattro anni e nel mondiale di Germania del 1974 toccò al cileno Carlos Caszely proprio contro i padroni di casa.

Ma quelli erano i mondiali della favolosa nazionale olandese guidata da Johann Crujiff e lì non mi sono perso nemmeno una partita.

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Lo sciopero legalitario, l’ultimo tentativo

La grande guerra aveva definitivamente emancipato gli operai ed i contadini (mai usciti dal luogo natio), che nella vita terribile passata nelle trincee ebbero modo di conoscere individui, scambiando così ragionamenti ed idee nuove. Le elezioni politiche del 1919 complice la grave crisi economica successiva alla fine del conflitto, unità all’incapacità della classe politica liberale portarono ad una netta affermazione del Partito Socialista e delle classi operaie. C’erano le condizioni per un governo nuovo, ma la paura di una “Bolscevizzazione” del popolo italiano, indusse Don Sturzo cap0 del neonato Partito Popolare a rifiutare questi accordi.

Scioperi e manifestazioni di protesta portarono in quegli anni al famoso biennio rosso. Industriali, proprietari agrari e ceto borghese, sempre più preoccupati dallo svilupparsi degli eventi cominciarono ad avere sfiducia nel Governo Liberale e si resero disponibili per situazioni più autoritarie che potessero garantire loro più sicurezza. La guerra aveva lasciato profondi segni sulla popolazione, molti ritornati dal fronte non avevano più lavoro, tanti sapevano solo combattere, su queste facili premesse trovarono terreno fertile i vari movimenti ideologici che si ispiravano all’interventismo e al mito della guerra, da queste ideologie nacque il fascismo, che con il congresso nazionale del 1920 divenne il Partito Nazionale Fascista (P.N.F.) presentandosi con una conversione a destra, come baluardo dell’Italia produttiva contro il pericolo “bolscevico”. Il fascismo fu artefice di una violenta offensiva antiproletaria condotta da squadre armate organizzate militarmente che nel giro di pochi mesi distrussero gran parte delle organizzazioni proletarie nelle province della Valle Padana, dove leghe ‘rosse’ erano giunte a esercitare un controllo quasi totale sulla vita politica ed economica.

E proprio per arginare questo clima di violenza e intimidazione il 31 luglio 1922 venne organizzato dall’Alleanza del lavoro (un organizzazione sindacale che riuniva tutte le forze antifasciste) uno sciopero chiamato poi “legalitario” per il suo contenuto di protesta nei confronti del dilangante illegalismo fascista. Nonostante la larga partecipazione popolare, lo sciopero fallì perché i fascisti sostenuti dalle forze di polizia organizzarono contromanifestazioni armate. Molti lavoratori furono uccisi, feriti e bastonati, duri scontri avvennero a Genova, Alessandria, Livorno, città notoriamente governate dai Socialisti, a Milano venne occupato il Municipio, in tutta l’Italia vennero date alle fiamme le Camere del Lavoro, le sedi di organizzazioni e giornali antifascisti, per evitare altre stragi, a quarantott’ore dalla proclamazione dello sciopero, l’Alleanza del lavoro si trovò costretta a revocarlo.

Era l’offensiva decisiva per sgomberare il campo dal nemico social-comunista, prima di rivolgersi direttamente, nella scalata verso la presa del potere, contro le strutture liberali, due mesi dopo iniziò la marcia su Roma. Il resto è storia.

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